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il Gobi – capitolo II – Tabula rasa elettrificata

Maciniamo chilometri, superiamo gli ostacoli.

Le nostre UAZ divorano la strada ma a volte esagerano e tocca far manutenzione straordinaria a pneumatici e altri componenti “esposti”.

Siamo alle porte del mitico Gobi.

La pista che seguiamo è tracciata da due linee parallele nella terra rossa e crepata dall’aridità.

Attorno a noi la famigerata “Tabula rasa -solo a tratti- elettrificata”.

Il primo segnale del nostro ingresso nel Gobi è la presenza dei cammelli, le navi del deserto. In tutta la Mongolia se ne contano ben 260000 esemplari, ognuno dei quali produce 250 kg di sterco all’anno, certamente una caratteristica ereditata dai dinosauri che popolavano la zona qualche milione di anni fa.

A proposito di dinosauri, ridendo e scherzando a bordo di Katiusha, siamo arrivati in quel di Bayazang, il sito dove l’equipe di Andrews, il nostro ricercatore americano di fossili, portò alla luce più di 100 scheletri di dinosauro.

Il cuore a mille come a Stalingrado.

Purtroppo però non è qui che potremo ammirare la meravigliosa collezione in quanto il tutto fu prelevato e trasferito al museo di storia naturale di New York.

In ogni caso è molto bello pensare che dove attualmente stiamo passeggiando, alcuni Velociraptor tendevano terribili agguati alle loro prede.

Poco distante da qui l’incredibile spettacolo delle Flaming Cliffs, formazioni rocciose dal colore fiammeggiante. All’ingresso del parco una signora a un banchetto di souvenir, per lo più frammenti di fossili o presunti tali, ci spiega come distinguere un vero “osso di dinosauro” da un qualunque sasso: l’unico metodo certificato dalla comunità scientifica (che lei per noi rappresenta) è limonarlo.

Se, passando la lingua sulla superficie del sasso, questa si incolla allo stesso, saremo in presenza di un vero e proprio ritrovamento di fossile e riceveremo istantaneamente in dono il diploma da Indiana Jones e probabilmente la mononucleosi.

In nome dell’archeologia limono tutte le pietre del banchetto.

Limonare può capitare.

Tutto il resto è l’incredibile spettacolo delle Flaming Cliffs

Ancora con il sapore di sabbia in bocca ci dirigiamo verso una delle attrazioni più importanti e visitate della Mongolia ovvero le Khongoryn Els, letteralmente “le dune che cantano” per via del suono che si genera quando la sabbia viene mossa dal vento.

Non prima di avere consumato un lauto pranzo a base di… indovinate un po’?!?

La duna di sabbia è indescrivibile a parole così come la fatica per scalarla. La vista tutt’attorno… pure.

Il tramonto ci accoglie all’arrivo al Camp Erdene; la giornata è stata intensa e c’è bisogno di celebrarla con un’ottima cena a base di inaspettati noodles al montone, birrette Gengis Khan e, visto che è il 10 di agosto, un paio di stelle cadenti.

Più notti trascorro nelle ger più sento il desiderio di averne una anche in Italia, di abbandonare il mio piccolo appartamento in città per vivere in mezzo a un prato dentro questa struttura accogliente ed essenziale.

Durante colazione spesso parliamo di come abbiamo trascorso la notte; la costante per tutti è la quantità di sogni che ogni mattina riusciamo a ricordare. Sogni per lo più stranissimi! Ene ci racconta così qualche leggenda ma anche vere e proprie credenze delle popolazioni nomadi mongole, storie di spiriti di animali e di sciamani che durante la notte visitano le ger… spiriti buoni ma anche spiriti cattivi…

Brividini.

Uscendo dal camp vedo una cosa che non avevo notato ieri sera: un canestro da basket si staglia nel bel mezzo del nulla. Questa è poesia, questa è la giornata tipo del baskettaro minors mongolo.

Quanto vorrei avere una palla a spicchi adesso!

Oggi ci attrezziamo per un pic nic e conseguente trekking nella Yolyn Valley, una stretta gola che segue il corso del torrente Yol, un canyon davvero magnifico che si fa largo tra passaggi strettissimi e prati aperti colorati dalla lavanda.

Alcuni di noi scelgono il cavallo come mezzo di trasporto, io e Giovanna ci avventuriamo per la stretta valle a piedi.

Per la seconda parte del percorso rimontiamo sulle UAZ e ci infiliamo in gole davvero suggestive dove troviamo anche una troupe televisiva mongola che sta girando un film sulla zona… del resto quale scenario migliore? Questo luogo è davvero emozionante, sembra di essere in un set televisivo ma è la realtà.

 

E cos’altro poteva mancare se non un tramonto mozzafiato a colorare la valle di mille tonalità di rosso? E’ la luce pazzesca, è la luce che piace a noi! CIT.

Proseguendo verso il camp la radio di Katiusha collegata all’ipod trasmette The Smiths e Radiohead.

Ok lacrimuccia, adesso puoi scendere.

Nella notte godiamo di una stellata clamorosa, almeno fino a quando non vediamo sorgere un’enorme luna rossa che illumina a giorno il deserto attorno a noi.

I due giorni successivi sono giorni di trasferimento che ci riporteranno a Ulaanbaatar da dove ripartiremo per la seconda parte del viaggio nell’ovest del Paese. Saranno gli ultimi giorni in cui potremo stare con Katiusha e il mio magone è come l’universo: in espansione.

Durante il viaggio abbiamo la possibilità di visitare una famiglia mongola e di provare addirittura a mungere le capre; l’operazione parrebbe più piacevole che complessa ma non è proprio così. In ogni caso “sono sempre belle le tette” (autocit.).

Dopo questo duro lavoro in “fattoria” siamo invitati a gustare alcune tazze di latte nella ger familiare.

Il resto del tempo che ci separa da Ulaanbaatar lo dedichiamo essenzialmente a nutrirci.

La regola che dice “dove che ghe xe camion e furgoni parcheggià fora se magna tanto e ben” è stata verificata anche qui nel deserto del Gobi. In una ger-autogrill sudicissima ci sbafiamo porzioni enormi di buuz (ravioli) e khuushuur (frittelle di montone fuori ghiacciate, dentro palla di fuoco 3000 gradi farenheit!). Al nostro fianco una compagnia di venti operai condivide una terrina di acciaio dalla quale tutti pescano, rigorosamente con le mani, pezzettoni o brandelli più o meno grandi di carne di capra e condividono tazze di latte e vodka.

E’ un gusto vederli mangiare e poter assistere a momenti di condivisione così sinceri. Che fame.

Tra un pasto e l’altro oziamo in distese sterminate di erba cipollina.

Non voglio tornare a Ulaanbaatar, lasciatemi qui a fare il soffritto.

E invece dopo sette giorni nel deserto siamo di nuovo immersi nella caotica e inquinata capitale UB. Che trauma! Per fortuna staremo qui solamente il tempo necessario a ricostruire lo zaino, lavare qualche paio di mutande e soprattutto noi stessi prima di affrontare la seconda parte del viaggio che si preannuncia, se possibile, ancora più selvaggia ed emozionante.

Tocca anche salutare la mia amata Katiusha che ci ha accompagnati per queste strade, piste, meravigliose. Un abbraccio ai drivers Bubu e Ghanà ma il più grande e commosso va a LEI. Porterò con me per sempre il tuo grigiore non metallizzato mia amata Katiusha.

Ti guardo andare via con il cuore in lacrime, il pugno ben chiuso in alto e il coro dell’Armata Rossa.

Я люблю тебя Катюша

Quanto a voi… Ci rivediamo sugli Altai!

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