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Capitolo V – Lago d’Aral

Mercoledì 14 agosto 2019

Lasciamo Bruttofigliodiputtana e Nèttolozainètto in custodia all’albergo e alle 7:30 siamo belli come il sole in attesa della nostra guida che, per i prossimi due giorni, ci accompagnerà alla scoperta della zona più remota del paese. Tazabay arriva puntualissimo a bordo di una Toyota 4×4 fresca di autolavaggio. Alla guida un uomo del quale non capiremo mai il nome e che durante tutto il lungo viaggio alternerà fasi di serrato mutismo a fasi interminabili di logorrea galoppante. In Karakalpaco naturalmente.
Lombroso avrebbe avuto il suo bel daffare con questo personaggio.
Tazabay parla molto bene l’inglese. Ci racconta che si è laureato in lingue a Tashkent e che fa l’interprete per diverse aziende della zona. Per arrotondare accompagna i gruppi di turisti e questa attività non fa altro che alimentare i suoi desideri di viaggiare e conoscere -spera- i paesi di provenienza delle tante persone che incontra. Impresa alquanto ardua se pensiamo alla differenza del costo della vita tra questo paese e un qualsiasi paese europeo.

Approfittando di aver trovato una persona con cui possiamo comunicare, lo tartassiamo di domande e cerchiamo di dare una risposta ai tanti dubbi e alle curiosità che abbiamo accumulato durante le tappe precedenti. La strada fila via liscia in modo piacevole e partecipato.

La prima tappa del nostro tour è la visita al complesso di Mizdakhkan a circa 15 km da Nukus.
Si tratta di una necropoli monumentale che occupa un’intera collina dove in passato sorgeva un’antica città successivamente distrutta dalla furia di Gengis Khan. In prossimità del punto più alto vi sono anche i resti di un’antica medressa dalla quale si gode di una vista straordinaria su tutta la necropoli. Dal lato opposto della collina scorgiamo i resti (pochi in verità) della fortezza di Gyaur Kala risalente all’epoca Zoroastriana (IV-III secolo AC)
Sembra un luogo fuori dal tempo, immerso in un silenzio totale.

Prima di riprendere il viaggio ci fermiamo a fare scorta di meloni (non Giorgia) e angurie presso una simpatica e ospitale famiglia letteralmente accampata sul ciglio della strada, manco fosse il posto più tranquillo e sicuro del pianeta.

Un’esplosione di colore e bellezza umana.

Presso questa capanna improvvisata capisco che tutte le mamme del Mondo sono uguali; a qualsiasi latitudine esse sono preoccupate che figli e ospiti possano morire di fame anche se, come nel mio caso, in evidente e drammatico stato di sovrappeso. Perciò mi trovo circondato da mille mani che allungano innumerevoli fette di qualunque qualità di melone: “assaggia, taste, mangiacheebbuono, unaltrafettaperlui”. Marta con la scusa dell’appena trascorso cagotto riesce a defilarsi dopo la seconda fetta. Io non ho scuse e non posso rifiutare. Alla sesta fetta faccio cenno all’autista psicopatico di mettere in moto per darci alla fuga.

Dopo pochi km qualcosa dento di me inizia a muoversi e ho la netta sensazione che non sarà una cosa bella.

Verso mezzogiorno arriviamo a Moynak, la città che più di ogni altra porta i segni dell’assurda tragedia del Lago d’Aral. In passato uno dei suoi principali porti di pesca, oggi Moynaq si trova a circa 200 km dall’acqua e ciò che resta della sua flotta di pescherecci arrugginisce sulla sabbia e il sale del lago prosciugato.

Prima di entrare nel locale Museo degli Studi Regionali per capire come diavolo sia successo questo scempio corro seguendo le indicazioni WC che finalmente trovo sul retro del museo. (Ore 12 – prima scarica). Ricompostomi e con un colorito itterico mi siedo e ascolto il documentario che spiega i motivi del disastro sgranocchiando fermenti lattici e pastiglie contro la dissenteria come fossero pop corn.

Molto in breve:
l’Aral era un immenso lago salato situato alla frontiera tra l’Uzbekistan e il Kazakistan.
Dal 1960 (quando il lago d’Aral era il quarto lago più grande del mondo) a oggi la sua superficie si è ridotta del 75%, e dei 68.000 km quadrati originali oggi ne restano poco più del 10%. Il restante 90% è sabbia, tutto il resto dell’acqua si è prosciugato, come si vede dalla foto sottostante scattata dal satellite Terra della Nasa.
Perché? Ai tempi della guerra fredda, per incrementare la produzione di cotone in una regione arida come l’Uzbekistan, i Sovietici attuarono un progetto di deviazione dei due fiumi che si immettevano nel lago tramite l’uso di canali. L’acqua prelevata venne utilizzata per irrigare i campi delle neonate colture intensive delle aree circostanti.
Essere umano mi fai cagare. Il che non mi serviva proprio in questo momento.

Pausa di riflessione. Ho la canzone:

Don’t go near the water
Don’t you think it’s sad
What’s happened to the water
Our water’s going bad

Oceans, rivers, lakes and streams
Have all been touched by man
The poison floating out to sea
Now threatens life on land

Sconvolti quanto basta ci dirigiamo verso una famiglia di Moynaq che ci ospiterà per il pranzo. Anche questo fa parte delle conseguenze del prosciugamento del lago. Un’economia basata sulla pesca spazzata via senza che venissero creati presupposti per fonti di reddito alternative. Così molte famiglie ospitano i gruppi di turisti in cambio di pochi Sum.
La famiglia ci accoglie con mille prelibatezze homemade. Chiedo dove sta il bagno e mi indicano un baracchino nel cortile. E’ una vera e propria latrina fetida con un buco sospeso nel baratro. Chi ci cade è perduto. (Ore 13 – seconda scarica).
Il black tea in ogni caso aiuta e mi sparo due belle tazzone bollenti.


Marta ormai ristabilita apprezza un piatto di patate e verdure cotto a vapore. Tazabay rispetta ma fa fatica a comprendere la sua scelta di essere vegetariana. “Why? Il montone, le pecore, le mucche sono fatte per essere mangiate”. Si spiegano i propri punti di vista. Io mi bevo il black tea e mangio anche un pezzo di obi, il pane tipico fatto in casa che sicuramente “sùga su“.
Ringraziamo e lasciamo definitivamente la strada asfaltata. Prossima destinazione: il cimitero delle navi.

C’è poco da dire a riguardo… Si tratta di alcune carcasse di pescherecci arrugginite a testimonianza e molto a favore di fotografi dei bei tempi che furono. Come detto, qualcosa per sopravvivere devono pur inventarselo. E’ qui che inizia a salirci la paranoia di essere parte del cosiddetto “turismo del disastro”, tipo quelli che andavano a farsi i selfy con alle spalle la Costa Concordia affondata per intenderci. In realtà qui la questione è molto più complessa. Qui è più essere testimoni di una tragedia causata dall’uomo che è ancora troppo poco conosciuta e che quindi va toccata con mano, compresa e per quanto possibile divulgata affinchè possa non ripetersi.

Proseguiamo verso ovest lungo l’antica sponda del lago, attraversando il fondale prosciugato per km e km incontrando decine di raffinerie di gas, una delle ricchezze uzbeke sfruttate quasi sempre da compagnie straniere. Il bacino asciutto si è trasformato in una densa steppa che mano a mano si dirada lasciando spazio ad una salina sconfinata. Sopra le nostre teste fino a poche decine d’anni fa pesavano metri cubi d’acqua. Se uno ci pensa non ci può credere. Credo invece che in questo momento e in un territorio così ostile devo cercare un riparo per dare sfogo alla mia cacca imminente.
Oltretutto davanti a noi si staglia ormai il desolato e vastissimo (200.000 km²) altopiano di Ustyurt. Devo fare presto. “Ehm… Sorry, can we stop to take some pictures?!?”

In effetti un po’ di foto le facciamo. Questa è la situazione “ripari” sul fondale del lago d’Aral.

Cerco il cespuglio più alto un po’ distante dalla macchina parcheggiata. Mi denudo completamente, perchè le cose, se vanno fatte, vanno fatte bene. Mi tengo solo le scarpe che non si sa mai se bisogna scappare. Attorno a me solo silenzio. (Ore 15 – terza scarica).

Percorriamo il cosiddetto Plateau a tutta velocità e ogni tanto ci fermiamo ad ammirare il paesaggio tanto desolato quanto suggestivo. Proviamo anche a scattarci delle foto in cui sembriamo magri ma invano.

Poi, dopo circa un paio d’ore di pista eccolo in lontananza. Il blu del lago d’Aral.

Scendiamo dal Plateau lungo una ripida mulattiera e ci facciamo mollare a circa 200 metri dalla riva che è l’esatta misura di ritiro annuale dell’Aral; tra un anno esatto la riva si troverà a 400 metri e tra 2 anni a 600 metri da questo stesso punto.
Lo scenario tuttavia è ancora mozzafiato. Le acque blu di questo “mar morto” a causa del grado di salinità concentrato nella poca acqua rimanente che contrasta con i colori tipici del deserto.

Tazabay ci mette in guardia dalle paludi di fango presenti nell’ultimo tratto precedente all’acqua: “occhio che si sprofonda”. “Tranquillo Tazabay, facciamo una passeggiata!”.

Sono momenti idilliaci, il mare, il tramonto, lei, ma come si sa la tragedia è sempre dietro l’angolo. Cerco di avvicinarmi all’acqua per “pociare” i piedi e mi ritrovo sprofondato fino a sopra il ginocchio nella melma fangosa. Totalmente immobilizzato, non avendo terreno solido su cui fare forza per uscirne, attendo l’intervento di Marta che grazie ad uno sforzo sovrumano riesce ad estrarmi dalle sabbie mobili.

Tazabay mi vede ed esclama alcune parole che tradotte in italiano credo significassero: “Che mona!”. Poi mi da una mano a ripulire.

Le ombre si distendono, scende ormai la sera e sono pronto per l’ennesima scarica, anche se pensandoci bene avrei potuto approfittarne mentre ero immerso nella melma. Sarà per la prossima volta. Arriviamo così al campo base con vista lago e prendiamo possesso della nostra yurta, l’equivalente della tanto apprezzata ger mongola. Il luogo e’ davvero incantevole, dopo un breve sopralluogo vado a battezzare lo sgabuzzino di lamiera con buco adibito a bagno del campo (Ore 19 – quarta scarica).

Per la cena ci riuniamo in una yurta più grande assieme a persone di altri tour quindi scambiamo quattro chiacchiere con spagnoli, olandesi, una famiglia di Torino, una ragazza giapponese e ovviamente le nostre guide. La tavola e il cibo si confermano il lasciapassare per eliminare qualunque barriera linguistica. Mangio solo il pane anche se i piatti che le cuoche del campo hanno preparato sono davvero invitanti. Vorrei evitare escursioni nell’oscurità.
Tutti siamo in attesa della grande stellata ma purtroppo il cielo è coperto e di stelle manco l’ombra. Peccato. Dopo cena abituiamo gli occhi all’oscurità e godiamo del silenzio del campo rotto solamente dal rumore dell’acqua del nostro malato lago d’Aral. Se siamo fortunati e le nuvole si alzano, alle 5 am potremmo ammirare l’alba sul lago. Ci laviamo i denti e ci puliamo qua e la con le immancabili salviette rinfrescanti. E’ tempo di fare la nanna.

Giovedì 15 agosto 2019

Poco prima delle 5 mi alzo ed esco dalla yurta con la scusa di vedere l’alba. In realtà mi reco a passi svelti verso il cesso.
E’ stata una notte di sogni strani, rumori e movimenti indecifrabili dentro e fuori dalla yurta. Saranno gli spiriti della notte asiatica già conosciuti nelle ger mongole. O forse no, come scopriremo più tardi.
Dopo aver espletato le funzioni do un’occhiata al campo alle prime luci dell’alba mentre Marta mi raggiunge infreddolita. Il cielo è ancora coperto ma in miglioramento. A breve la luce inonda tutto.

Durante la colazione:
Marta: “comunque stanotte sentivo degli animali e non capivo se erano dentro o fuori la yurta…”
Io “erano i cani fuori…”
Ragazzo olandese: “…questa mattina mi alzo, apro lo zaino per prendere la felpa ed esce fuori un topo!”
Marta: “Ma ha detto mouse?!… Veramente?”
Io “No no avrai capito male… ha detto House… Perchè si sentiva a casa… (faccina con sorriso forzato e goccia di sudore sulla fronte)”…
Ecco cos’erano i movimenti che sentivo attorno a me nella yurta… Altro che spiriti delle tenebre!

 

Ricomponiamo lo zaino facendo attenzione a non portarci a casa ospiti poco desiderati e ritorniamo sul Plateau dove visiteremo alcune antiche rovine di caravanserragli che al tempo della via della Seta venivano utilizzati come veri e propri alberghi e punti di ristoro per uomini e bestie. Tazabay ci racconta che all’epoca il lago d’Aral era non solo una fonte di refrigerio per i viandanti ma anche una fonte di acqua potabile in quanto il grado di salinità dell’acqua era appena sopra lo zero.

 

L’innominato autista sfreccia sulle piste del deserto quando davanti a noi si materializza un crogiuolo di uomini e veicoli.
Una coppia di ragazzi dalla Repubblica Ceca sono rimasti a piedi con la loro auto: una Citroën Xsara con cui hanno viaggiato sin qui da casa. Meravigliosi eroi folli e incoscienti. Hanno spaccato un braccetto dello sterzo nel bel mezzo del nulla, ma già è arrivata una jeep da un campo di yurte poco distante con un driver dotato di figlio, pezzi di ferro e saldatore. Tutto si crea, nulla si distrugge ma soprattutto tutto si ripara. Salutiamo e auguriamo buona fortuna alla coppia ceca.

Visitiamo poi l’insediamento sovietico ormai abbandonato di Kubla Ustyurt proprio nel bel mezzo dell’Ustyrt Plateau. Una famiglia ci offre il latte di cammello, proprio quello che mi serve per la dissenteria… altro che fermenti lattici vivi!

Nelle foto il coraggio di Marta.

Incuriosito dall’ennesimo infinito monologo in Karakalpako del nostro driver, chiedo a Tazabay quale fosse l’argomento affrontato. Mi risponde lapidario, nel senso di lapide, “Parlava di sua moglie”.
Non mi sembra il caso di chiedere altro.
In quel momento veniamo sbalzati in avanti dai sedili a causa di un inchiodone pazzesco della macchina e anche del monologo. Stavamo per investire una rarissima volpe del deserto!
Spegniamo il motore. Lei, magrissima, è immobilizzata, come se fosse in attesa di qualcosa; allo stesso tempo è impaurita e indecisa sul da farsi, non sa se avvicinarsi o scappare. Tazabay sostiene che è assetata e alla ricerca di acqua, così lasciamo a terra una vaschetta con dell’acqua e ci allontaniamo lentamente.

Da qui a Nukus ripercorriamo a ritroso la pista dell’andata, gustandoci gli ultimi momenti sull’ex fondale marino.

Rientriamo a Nukus nel tardo pomeriggio, stanchi, impolverati, un po’ provati dalla diarrea (io) ma felici e soddisfatti di questa due giorni nel deserto del Karakalpakstan. Abbiamo visto e ora raccontato uno dei più gravi disastri causati dall’uomo negli ultimi anni. Per chi volesse approfondire e avere più dettagli sulla questione Aral consigliamo il seguente video tratto dal sito di Internazionale.

https://www.internazionale.it/video/2019/06/12/lago-aral-deserto

Da Nukus è tutto, linea a Tashkent per l’ultima tappa del nostro viaggio.

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Capitolo IV – Nukus

Martedì 13 agosto 2019

E fu così che “tomorrow time o’clock” ci facciamo trovare pronti e zainati all’uscita della nostra guesthouse. Puntualissima arriva un’auto che in effetti non è quella del nostro tassista e men che meno l’autista è il nostro tassista che -a gesti- ci fa capire che è un collega del nostro contatto e che sarà felice di accompagnarci a Nukus. Salutiamo una Khiva in fermento per la festa dell’anguria e procediamo confortevoli verso nord-ovest.

Mano a mano che ci allontaniamo da Khiva il deserto prende il sopravvento e attraversiamo zone totalmente disabitate. Sulla nostra destra solo una linea ferroviaria in costruzione.

Comunichiamo con l’autista utilizzando un idioma molto creativo fatto di gesti e parole inventate. In qualche modo riesce a spiegarci che siamo appena entrati in un altro “STAN”. La regione più occidentale dell’Uzbekistan infatti è una repubblica autonoma che di nome fa Karakalpakstan abitata da circa 1.200.000 abitanti di cui 400.000 uzbechi e 300.000 kazachi.
I Caracalpachi furono pastori e pescatori nomadi e il loro nome dovrebbe significare “cappello nero” in riferimento all’abbigliamento tradizionale. A quanto pare qui ci tengono parecchio alla loro autonomia e allora penso alla famosa battuta coniata dopo il referendum scozzese: “Se non ce l’ha fatta la Scozia che esiste, figuriamoci la Padania”. Chiedo immediatamente se è possibile avere un timbro nel passaporto ma il nostro autista non capisce o fa finta di non capire.


Mentre io e Marta ci alleniamo a pronunciare correttamente KA RA CAL PAK STAN notiamo una signora con le borse della spesa a bordo strada. Il nostro driver si ferma a parlottare con la richiedente passaggio e ci guarda come a chiedere “Vi dispiace se carichiamo anche lei?” “No problem man!” Se prima eravamo in tre ad andare a Nukus, adesso siamo in quattro ad andare a Nukus.

A questo punto del racconto molti si staranno chiedendo per quale motivo bisogna spingersi in un luogo così desolato e depresso? Beh, forse non tutti sanno che a Nukus si trova un museo che ospita una delle più grandi collezioni d’arte al mondo dedicate all’avanguardia sovietica: la Collezione Savitsky.
Igor Savitsky era un ex elettricista nato da una ricca famiglia russa che arrivò in questa remota zona dell’Uzbekistan al seguito di uno scavo archeologico intorno al 1950. Dapprima iniziò a collezionare manufatti, tessuti e gioielli locali, poi proprio grazie alla lontananza da Mosca e da Tashkent, fu in grado di accumulare una vasta collezione d’arte d’avanguardia dissidente, acquistare ed esporre dipinti che erano stati vietati dalla censura sovietica, fondando il museo nel 1966.
Tutte le opere che non erano riferibili al realismo socialista furono infatti bandite da Stalin. Gli altri stili come il cubismo, il futurismo e l’impressionismo erano all’epoca considerati fuorilegge. Savitsky riuscì a salvare migliaia di opere nascondendole in questo museo di una città totalmente isolata dal potere centrale.

Prima di saziare lo spirito con l’arte dobbiamo però saziare il corpo. La prova della definitiva guarigione di Marta è il numero di uzbek somsa alla cipolla che ingurgitiamo per strada. This is the real Uzbek street food!

Camminiamo per le vie poco trafficate di Nukus fino al museo della Collezione Savitsky composto da due grandi edifici nel bel mezzo di una piazzetta dove una coppia di sposi con relativi parenti al seguito si lascia immortalare da una troupe di fotografi e videomakers; c’è anche un addetto a portare una gabbia di colombe bianche che vengono liberate a favore di scatto fotografico.
All’interno del museo non più di 10 persone noi compresi. Si dice che la collezione si componga di oltre 90.000 opere di cui solo una minima parte è esposta. Giriamo per le sale ammaliati dalla bellezza dei quadri e delle sculture. E’ una visita che definiamo incredibile, surreale, assurda considerato il luogo in cui ci troviamo.
Al di là del valore indiscusso delle opere esposte, visitare questo museo nel bel mezzo del nulla è una delle cose “fatte” da segnare nella lista di quelle più insolite.


All’uscita un ragazzo uzbeko si offre di farci una foto, farci nel senso di noi tre. Ragazzo uzbeko, se mai leggerai queste righe sappi che ti vogliamo bene!

Dal museo raggiungiamo il mercato di Nukus e di colpo ci troviamo schiacciati tra centinaia di persone che si muovono tra banchetti colorati da tutti i tipi di frutta secca, formaggi, teste di pecore, biglietti della lotteria, biscotti, utensili artigianali, macellerie all’aperto, distributori di latte, una distesa a perdita d’occhio di uomini e merci. Ah ecco dove erano finiti tutti! Troviamo uno scalino dove sedere e osservare la frenesia del mercato. Nel frattempo sgranocchiamo dei biscotti buonissimi comprati a peso.

Prima di rientrare in albergo ci dirigiamo verso la zona dell’università passeggiando lungo il Kyzketken, uno dei tanti canali artificiali che hanno contribuito ad attuare il disastro del lago d’Aral che raggiungeremo domani. Le sensazioni che anticipano quella che sarà l’ultima parte del nostro viaggio sono contrastanti: da un lato c’è la consueta voglia di scoprire luoghi sconosciuti che ci spinge a proseguire, dall’altro c’è una sensazione di sgomento nell’andare a toccare con mano uno dei più gravi disastri naturali provocati dall’uomo.

Zainetti pronti. Si parte per una due giorni nel deserto.

 

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