Martedì 13 agosto 2019
E fu così che “tomorrow time o’clock” ci facciamo trovare pronti e zainati all’uscita della nostra guesthouse. Puntualissima arriva un’auto che in effetti non è quella del nostro tassista e men che meno l’autista è il nostro tassista che -a gesti- ci fa capire che è un collega del nostro contatto e che sarà felice di accompagnarci a Nukus. Salutiamo una Khiva in fermento per la festa dell’anguria e procediamo confortevoli verso nord-ovest.
Mano a mano che ci allontaniamo da Khiva il deserto prende il sopravvento e attraversiamo zone totalmente disabitate. Sulla nostra destra solo una linea ferroviaria in costruzione.
Comunichiamo con l’autista utilizzando un idioma molto creativo fatto di gesti e parole inventate. In qualche modo riesce a spiegarci che siamo appena entrati in un altro “STAN”. La regione più occidentale dell’Uzbekistan infatti è una repubblica autonoma che di nome fa Karakalpakstan abitata da circa 1.200.000 abitanti di cui 400.000 uzbechi e 300.000 kazachi.
I Caracalpachi furono pastori e pescatori nomadi e il loro nome dovrebbe significare “cappello nero” in riferimento all’abbigliamento tradizionale. A quanto pare qui ci tengono parecchio alla loro autonomia e allora penso alla famosa battuta coniata dopo il referendum scozzese: “Se non ce l’ha fatta la Scozia che esiste, figuriamoci la Padania”. Chiedo immediatamente se è possibile avere un timbro nel passaporto ma il nostro autista non capisce o fa finta di non capire.
Mentre io e Marta ci alleniamo a pronunciare correttamente KA RA CAL PAK STAN notiamo una signora con le borse della spesa a bordo strada. Il nostro driver si ferma a parlottare con la richiedente passaggio e ci guarda come a chiedere “Vi dispiace se carichiamo anche lei?” “No problem man!” Se prima eravamo in tre ad andare a Nukus, adesso siamo in quattro ad andare a Nukus.
A questo punto del racconto molti si staranno chiedendo per quale motivo bisogna spingersi in un luogo così desolato e depresso? Beh, forse non tutti sanno che a Nukus si trova un museo che ospita una delle più grandi collezioni d’arte al mondo dedicate all’avanguardia sovietica: la Collezione Savitsky.
Igor Savitsky era un ex elettricista nato da una ricca famiglia russa che arrivò in questa remota zona dell’Uzbekistan al seguito di uno scavo archeologico intorno al 1950. Dapprima iniziò a collezionare manufatti, tessuti e gioielli locali, poi proprio grazie alla lontananza da Mosca e da Tashkent, fu in grado di accumulare una vasta collezione d’arte d’avanguardia dissidente, acquistare ed esporre dipinti che erano stati vietati dalla censura sovietica, fondando il museo nel 1966.
Tutte le opere che non erano riferibili al realismo socialista furono infatti bandite da Stalin. Gli altri stili come il cubismo, il futurismo e l’impressionismo erano all’epoca considerati fuorilegge. Savitsky riuscì a salvare migliaia di opere nascondendole in questo museo di una città totalmente isolata dal potere centrale.
Prima di saziare lo spirito con l’arte dobbiamo però saziare il corpo. La prova della definitiva guarigione di Marta è il numero di uzbek somsa alla cipolla che ingurgitiamo per strada. This is the real Uzbek street food!
Camminiamo per le vie poco trafficate di Nukus fino al museo della Collezione Savitsky composto da due grandi edifici nel bel mezzo di una piazzetta dove una coppia di sposi con relativi parenti al seguito si lascia immortalare da una troupe di fotografi e videomakers; c’è anche un addetto a portare una gabbia di colombe bianche che vengono liberate a favore di scatto fotografico.
All’interno del museo non più di 10 persone noi compresi. Si dice che la collezione si componga di oltre 90.000 opere di cui solo una minima parte è esposta. Giriamo per le sale ammaliati dalla bellezza dei quadri e delle sculture. E’ una visita che definiamo incredibile, surreale, assurda considerato il luogo in cui ci troviamo.
Al di là del valore indiscusso delle opere esposte, visitare questo museo nel bel mezzo del nulla è una delle cose “fatte” da segnare nella lista di quelle più insolite.
All’uscita un ragazzo uzbeko si offre di farci una foto, farci nel senso di noi tre. Ragazzo uzbeko, se mai leggerai queste righe sappi che ti vogliamo bene!
Dal museo raggiungiamo il mercato di Nukus e di colpo ci troviamo schiacciati tra centinaia di persone che si muovono tra banchetti colorati da tutti i tipi di frutta secca, formaggi, teste di pecore, biglietti della lotteria, biscotti, utensili artigianali, macellerie all’aperto, distributori di latte, una distesa a perdita d’occhio di uomini e merci. Ah ecco dove erano finiti tutti! Troviamo uno scalino dove sedere e osservare la frenesia del mercato. Nel frattempo sgranocchiamo dei biscotti buonissimi comprati a peso.
Prima di rientrare in albergo ci dirigiamo verso la zona dell’università passeggiando lungo il Kyzketken, uno dei tanti canali artificiali che hanno contribuito ad attuare il disastro del lago d’Aral che raggiungeremo domani. Le sensazioni che anticipano quella che sarà l’ultima parte del nostro viaggio sono contrastanti: da un lato c’è la consueta voglia di scoprire luoghi sconosciuti che ci spinge a proseguire, dall’altro c’è una sensazione di sgomento nell’andare a toccare con mano uno dei più gravi disastri naturali provocati dall’uomo.
Zainetti pronti. Si parte per una due giorni nel deserto.