La prima volta che sentii parlare del deserto del Gobi fu alle elementari. La maestra di storia ci “spiegava” i dinosauri e ricordo nitidamente che ci raccontò di un esploratore statunitense che si mise alla ricerca di fossili in quell’area della Mongolia e quasi per caso, dopo essersi perduto, trovò dei fossili che letteralmente affioravano dal sottosuolo.
Uno dei ritrovamenti più clamorosi fu quello di uno scheletro completo di un Velociraptor avvinghiato in combattimento a quello di un altro dinosauro.
La cosa mi colpì molto (grande maestra Paola).
Poi nel 1993 Steven Spielberg uscì nelle sale con Jurassic Park, e Piero Angela si fece piccolo piccolo per un viaggio indietro nel tempo fino al Cretaceo… Insomma, ‘sta cosa del Gobi mi è rimasta dentro come un pensiero di quelli che di tanto in tanto riaffiorano tra le migliaia di files mentali nella cartella “luoghi da visitare nella vita”.
E indovinate un po’? All’alba di lunedì 7 agosto 2017 mi ritrovo a Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, con un manipolo di esploratori, tra cui due drivers e una guida locale, a prendere possesso di due “UAZ” minivan di fabbricazione russa -since 1941- per partire alla scoperta del deserto del Gobi.
Sto finalmente per realizzare un sogno di bambino e tra l’altro a bordo di un veicolo sovietico, meraviglioso nel suo essere totalmente fuori moda e fuori del tempo, spartano ed essenziale, malconcio e romantico, splendido nel suo grigiore non metallizzato, nei suoi interni imbottiti con tappezzeria da divano celeste, le tendine con le frange gialle e i sedili di lanetta marrone, i colori del cielo, la terra e il sole. Poesia su 4 ruote.
Il cuore a mille come a Stalingrado.
Parte subito il “totonome” ma non c’è competizione, viene deciso all’unanimità che la nostra UAZ si chiamerà Katiusha.
Katiusha ti amo.
Uscendo dal caos e dall’aria irrespirabile di UB (Ulaanbaatar) inizia la nostra discesa verso l’estremo sud del Paese. Attorno a noi le case e i palazzoni di epoca sovietica lasciano gradualmente il posto alle famose tende tipiche di molti popoli dell’Asia, le GER. Anche se la Mongolia negli ultimi anni sta subendo un forte processo di urbanizzazione, più della metà dei Mongoli continua infatti a vivere nelle proprie abitazioni tradizionali sia che si tratti di nomadi di campagna o di abitanti di città e villaggi.
Nomadismo o barbarie.
Ovunque si possono vedere mandrie di bestiame pascolare indisturbate nelle immense distese d’erba: mucche, capre, pecore, montoni, cavalli e yak. In tutto il paese si contano circa 50 milioni di capi per una popolazione totale di circa 3 milioni di abitanti… un patrimonio inestimabile di circa 16 bestie procapite!
Ben presto abbiamo anche la possibilità di assaggiare la carne di queste bestie in uno (o forse l’unico?!) dei piatti che ci accompagnerà per tutto il viaggio: lo tsuivan, un piatto a base di noodles cotti al vapore e mescolati con verdure (quasi sempre carote, patate) e bocconcini di carne di montone, agnello o manzo, ma soprattutto abbiamo la possibilità di assaggiare una delle bevande tradizionali mongole ovvero il suutei tsai ovvero il the salato con l’aggiunta di latte, o forse sarebbe meglio dire il latte salato con l’aggiunta di un goccio di thè considerato il colore “total white” della bevanda.
Devo dire che ero abbastanza terrorizzato all’idea di bere latte nelle sue più svariate forme e provenienze in quanto abbastanza intollerante ma devo dire che vuoi che quando sei in vacanza tutto è più buono e in questo caso più digeribile, vuoi che il latte mongolo subisce meno trattamenti industriali, pur bevendone parecchio non ho mai dovuto correre a cercare un bagno in preda al cagotto fulminante, anche perchè la ricerca di una toilette sarebbe stata vana fuori da UB.
Ad Harhorin visitiamo lo splendido monastero Kharakhorum, è il primo contatto con la spiritualità buddhista.
Trascorriamo la notte presso l’Anar Camp, un vero e proprio campeggio situato in riva al fiume Orhon ma con le ger al posto delle roulotte o delle tende igloo.
La ger è veramente spaziosa, due letti ai lati esterni lungo le pareti, la stufa centrale da utilizzare in caso di freddo intenso e molto altro spazio dove disseminare varie cose estratte dallo zaino.
Da segnalare durante la notte: ingresso in ger di almeno 3 rane, decine di insetti quali bacarozzi e falene; per fortuna la cena a base di noodles con verdura e carne mi aveva saziato altrimenti li avrei utilizzati per sfamarmi.
Martedì mattina ci rimettiamo in marcia con le nostre UAZ risalendo il percorso del fiume Orhon e testando sulla nostra pelle il motivo per cui Kati è stata rivestita di fodera imbottita. La pista è talmente dissestata che le botte e, in breve tempo, gli ematomi viola da urto non si contano (Katiusha è priva di cinture di sicurezza… a lei piace così… senza protezioni). Le UAZ tra pietraie e guadi danno il meglio di loro e con esse i due autisti che si esaltano; a dire il vero più Bubu, il pilota dell’altra UAZ della carovana. La nostra Kati è invece sapientemente condotta dal sempre composto e di poche parole Ghanà.
Una volta allontanati dal fiume ci ritroviamo nel bel mezzo di una valle verdissima circondati da pascoli enormi. La vastità del paesaggio mongolo inizia a farsi strada dentro di noi.
La strada di oggi ci porterà sui monti del Khangai dove percorreremo un breve trekking per raggiungere il monastero di Tovkhon Khiid sulla vetta dello Shireet Ulaan Uul, un bello strappetto di quelli che ti aprono per bene i polmoni e sciolgono il katarro.
Il paesaggio dalla cima del monastero è veramente suggestivo, oserei quasi dire “alpino”.
Dopo la ridiscesa e un rapido pic nic saltiamo di nuovo in groppa alle nostre UAZ per raggiungere un altro dei siti più suggestivi della Mongolia centrale ovvero la cascata di Orkhon Khurkhree. Per arrivarci attraversiamo una pietraia che mette molto alla prova le nostre ernie. Dentro Kati si balla letteralmente, anche perchè Elena ha con se una compilation di musica anni ’80 che il nostro autista si ingegna a riprodurre attraverso l’impianto “stereo dolby surround 4.0” della UAZ. Tutto funziona ma più che un ballo sembra un “pogo” tra salti, spallate e testate.
Arrivati alla cascata ci concediamo, sotto un sole meraviglioso, un meritato pediluvio nell’acqua gelida e rigenerante in mezzo agli sguazzi degli autoctoni che sembrano curarsi gran poco della temperatura dell’acqua.
Da qui ripercorriamo a ritroso tutta la pietraia per poi prendere una pista secondaria per raggiungere una vera famiglia mongola che ci ospiterà per la notte.
Arriviamo proprio al tramonto nel bel mezzo del nulla, davanti a noi quattro ger, di cui due destinate agli ospiti che per stasera saremo noi!
Ci troviamo in una larga vallata circondata da montagne e… nient’altro. Nessuna luce o villaggio all’orizzonte in alcuna direzione. Questa è la vera vita di una famiglia nomade. L’unico bagno è un buco scavato nel terreno con due assi di legno su cui stare in equilibrio (vietato sbagliare… le conseguenze potrebbero essere mooooolto gravi) e l’unico lavandino è stato ingegnosamente creato con un fustino di birra da 5 litri che raccoglie l’acqua piovana. Cosa possiamo volere di più? Una cena! Magari dei noodles con verdure e lamb. Abbiamo avuto anche quella, puntuale.
Chiediamo di poter incontrare i componenti della famiglia per ringraziarli dell’ospitalità e fare quattro chiacchiere con l’aiuto dell’indispensabile Ene, nostra guida e traduttore simultaneo Inglese-Mongolo, Mongolo-Inglese.
La famiglia accetta di buon grado e non appena facciamo capolino nella grande ger (rispettando in modo rigoroso il rituale previsto che Ene per tutto il giorno ha tentato di insegnarci… una specie di coreografia) ci offre qualunque tipo di latte più o meno fermentato, pezzettoni di carne di pecora untissima, formaggi di cavalla, capra, mucca e chissà che altro, ma soprattutto la famigerata arkhi (vodka) fatta in casa, una bevanda a cui diciamo bisogna “fare un po’ la bocca” prima di poterla apprezzare a fondo. La regola è una sola: vietato rifiutare. Facciamo un sacco di domande su come sia la vita nomade nel 2017, come convive con le esigenze di modernità e di tecnologie delle nuove generazioni. Quello che emerge è che la società mongola sta vivendo un momento di cambiamento epocale innanzitutto da quella che era la vita durante il periodo sovietico ma anche a causa del cambiamento climatico che rende sempre più difficile per le famiglie nomadi “governare” il bestiame e capire quali possano essere i luoghi più favorevoli ai pascoli. Le nuove generazioni sono infine sempre più spinte ad avvicinarsi alle città dove per esempio possano accedere più facilmente a istruzione e servizi. Mentre parliamo la ger si è riempita di altre persone appartenenti ad altre famiglie nomadi delle vicinanze. E’ un momento di condivisione bellissimo, siamo tutti seduti in cerchio e mi verrebbe da girare una canna per farla girare in amicizia, ma va bene lo stesso. Dopo la seconda scodella (unità di misura ufficiale della vodka in Mongolia – vietato rifiutare) di arkhi usciamo dalla ger e alzando lo sguardo nell’oscurità più totale ci accorgiamo di essere osservati da una quantità di stelle incredibile.
Serata speciale.
Neanche il miglior McGyver avrebbe pensato di utilizzare un fustino di birra al posto del lavandino.
Dopo colazione è sempre bene lavarsi muso e denti nel nostro “bathroom with a view“.
Oggi, con una lunga tappa di trasferimento, entreremo ufficialmente nel cosiddetto “middle Gobi” attraverso il Gurvansaikhan National Park, il parco nazionale più grande della mongolia (quasi 27000 km quadrati). Già sento puzza di cacca di velociraptor.
Dopo diverse ore in mezzo al nulla ci fermiamo in quello che ha tutta l’aria di essere un “autogrill” mongolo… una serie di casette tutte in fila in uno spiazzo sul lato della strada (quella asfaltata, non quella che stiamo percorrendo noi…).
All’interno di una ger assaggiamo un altro dei piatti tipici mongoli: il buuz ovvero un piatto di ravioli cotti a vapore ripieni di carne di montone macinata, aglio e cipolla. Squisito.
Da bere una scodella bella piena e bollente di the al latte, ormai senza più freni inibitori intestimali.
Sul piazzale esterno siamo protagonisti di una trattativa per la vendita di una pecora. Il commerciante ce la offre per l’equivalente di Euro 25,00 IVA inclusa chiavi in mano con consegna immediata. Io l’avrei presa subito ma dubito che Air China la consideri un maglione di cachemire…
Scendendo verso sud inizio a capire fino in fondo il significato del titolo che i CSI diedero al loro disco TABULA RASA ELETTRIFICATA scritto esattamente 20 anni fa dopo un viaggio in Mongolia di Zamboni e Ferretti. Solo in questi giorni e solo qui riesco ad andare a fondo sul significato dei testi di canzoni come “Unità di produzione”, “Vicini” o “Ongii” che è proprio dove ci troviamo ora! Questi luoghi hanno ispirato un disco indispensabile nella storia del rock italiano.
Capolavoro assoluto.
Tutti i giorni io e Sara ascoltiamo dall’iPod almeno una canzone del disco, un rituale irrinunciabile.
Vicini per chilometri vicini per stagioni
Sulle tracce dei lupi che fuggono le guerre degli umani
Vicini per chilometri vicini per stagioni
Traversando frontiere che preparano le guerre di domani
Vicini per chilometri vicini per stagioni
C’è modo e luogo di scoprire che il confine è d’aria e luce
D’Aria e Luce
Scioglie il suono del tuono la tensione del cuore
In canto in danza in movimento in mille sfumature
E poi tu dici – dormi – il sonno viene
E poi tu dici – sveglia – se ne va
E poi tu dici andiamo
E poi tu dici andiamo
San bai no san buonagiornata
San bai no san buonagiornata
San bai no san
San bai no san
Verso sera visitiamo le rovine del monastero di Ongiin Khiid lungo il corso dell’Ongiin Gol. In passato in quest’area sorgevano i due più grandi monasteri della Mongolia, abitati da oltre un migliaio di monaci. All’interno del complesso vi è anche una sorgente di un’acqua che pare abbia proprietà curative, peccato che nell’atto di raccoglierla dal pozzo, l’autista Bubu abbia fatto cadere sul fondo il bastone con il catino per raccoglierla. Nell’imbarazzo generale e senza proferire parola alcuna abbiamo richiuso il pozzo e ci siamo allontanati a passo svelto. Per fortuna i CSI ci riportano alla serietà che la solennità del momento richiede.
Raccontami Ongii che scorri
Incessante preghiera che mormora al cielo
Del tuo monastero perduto dimmi la bellezza dei gesti e dei colori
Che ti hanno traversato e che hai riflesso
Dei bagliori dell’oro dei fuochi dei fumi e dei profumi d’incenso
Tra l’eco di conchiglie trombe campane fragore di tamburi di piatti
Lo sgretolarsi tremolante dei gong
Cantami coi pellegrini nomadi gioie e bisogni
E delle carovane sfiancate da Occidente dall’interno dal Nord e
dall’Oriente
Cantami dei mercanti i richiami
E della folla il brusio
E l’ooohooohooo di meraviglia ai prodigi
Inondami di vita quotidiana
D’ovvio rumore stupore
Canta il Capodanno lunare
Viene la primavera la terra che fiorisce
La vita si rivela
Latte carne sangue nutrimento offerta al tempio
Ed è preghiera il succhiare della bocca
Nei cuccioli d’uomo e animale
Ed è preghiera il succhiare della bocca
Nei cuccioli d’uomo e animale
Arriviamo all’Onghy camp proprio al momento del tramonto.
La ger vista fiume è la più ambita.
Possiamo rimanere qui una settimana?