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Leyendas y tradiciones

Dia 4 – venerdì 7 agosto 2015

Quella mattina partii presto, vestito di tutto punto: pedule, pantaloni di fustagno, “portavo un eskimo innocente” a coprire il maglione di lana pesantissimo, guanti in pile e berretto norvegese con treccine incorporate.

Camminai per ore nel freddo glaciale della steppa innevata senza incontrare anima viva quando ad un tratto fui distratto da un rumore metallico come di una turbina che si avvicinava sempre più. All’orizzonte un puntino nero si faceva sempre più grande e quando fu poco distante dai miei occhi vidi che si trattava di un’elica che si avvicinava a velocità pazzesca e non accennava a compiere deviazioni di sorta! Mi gettai con scatto felino a lato del sentiero per schivarla e… mi svegliai in un lenzuolo che ormai pareva un sudario con un ventilatore puntato in faccia.

Guardo l’orologio: ore 5:03 – adesso so cosa prova Nicola tutte le mattine (ma questa è un’altra storia e se vorrà ve ne farà cenno lui stesso nelle prossime puntate).

Temperatura percepita nella stanza del Tortuga Booluda: palla di fuoco 3000 gradi… Farenheit!

I miei compagni di viaggio ronfano (soprattutto Lara)… Ma come cazzo fate a dormire con sto caldo?!

Mi sento un po’ come Ace Ventura dentro al rinoceronte:

Esco dal forno e scopro di non essere il solo mattiniero. Qua e là giacciono in ordine sparso e più o meno addormentate le belle ospiti viste ieri… Caldo ma almeno qui fuori si respira.

Mi dirigo verso la cucina, mi servo una tazza di caffè che vado a sorseggiare nell’ultima amaca disponibile all’ombra del primo sole (s’era assopito un pescatore).

Leggo la guida, ascolto musica, chiedo alle tipe che programmi avessero per la giornata, dormo un po’, mi verso dell’altro caffè e verso le 8 vedo finalmente comparire all’orizzonte le sagome di Lara e Nicola. Buongiorno compagni!

E’ il momento dei pancakes, da farsi con il preparato già messo a disposizione dagli chef del Tortuga Booluda.

Almeno un paio di giri a testa.

La giornata di oggi sarà dedicata ad una visita più approfondita di Leòn (che nome cazzuto) e di alcuni luoghi segnalati sulla nostra guida come “da non perdere”.

E figurati se noi ce li perdiamo! Poco prima delle dieci, dopo aver riassettato i nostri zaini, (io sono sveglio già da 5 ore) siamo pronti ad uscire nel delicato tepore della città.

Come prima tappa andiamo a vedere il Leòn (che nome cazzuto) Mural ovvero una serie di murales che ripercorrono la storia della città dai primi insediamenti Aztechi, alla fondazione da parte dei conquistadores spagnoli, fino all’epoca attuale.

Davvero originale – primo luogo da non perdere fatto

Dalla plaza principale ammiriamo la grande Cattedrale dell’Assunzione (1700), l’immancabile memoriale della rivoluzione ma soprattutto gli alberelli meta ambita per la ricerca di refrigerio dall’inferno di calore che ci circonda.

Dopo qualche sosta-idratazione arriviamo al museo più importante di Leòn (che nome cazzuto) ovvero il museo de leyendas y tradiciones.

Come abbiamo appena appreso dai murales infatti, la città è ricca di storia e la zona è conosciuta per le leggende che si sono tramandate di generazione in generazione e questo museo altro non è che una collezione stravagante di figure di cartapesta a grandezza naturale fatte a mano dalla fondatrice, la Señora Toruña (pure lei presente in versione imbalsam… ehm cartapestata).

Ci si sposta da una stanza all’altra, ognuna dedicata ad un aspetto diverso del folklore di Leòn (che nome cazzuto): La Gigantona – la donna gigante che rappresenta un colono originale ridicolizzata da un popolare balletto, oppure “La Carreta Nagua”, che preannuncia la morte di chi la incontra.

Per capire meglio il significato di queste figure decidiamo di servirci di una guida; ci avviciniamo alla cassa per acquistare i nostri titoli d’ingresso assieme ad una coppia di americani arrivati con noi. In questo stesso istante, dall’altro lato del vetro, nell’ufficio con l’aria condizionata sparata a 100, il povero Wilber Zarate sta per iniziare a gustarsi una scodella di granita pensando che niente e nessuno potesse frantumargli i coglioni e che per nessuna ragione al mondo sarebbe uscito di nuovo sotto il sole ormai allo zenit.

E invece…

Pronto ad un nuovo tour del museo con la scodella di granita in mano, Wilber si rivela molto professionale e, a differenza nostra, una bella persona. Ci racconta per filo e per segno delle leggende cittadine, di come e perchè sono nate. Tutto molto bello insomma, ma sala dopo sala un’angoscia mi opprime sempre più insistente: continuo ad osservare la granita di Wilber, ormai più simile ad una pozza d’acqua calda… In certi momenti non riesco più neanche ad ascoltare, vorrei solo gridare Wilbeeeeeer, mangia la granita prima che si sciolga del tutto! Ti prego! Ma lui niente, prosegue imperterrito nelle minuziose spiegazioni. Eroe.

Entriamo velocemente in confidenza e quando gli diciamo che siamo italiani i suoi occhi si illuminano: lui ha da poco iniziato a studiare l’italiano e ci confessa che uno dei suoi sogni è quello di venire a visitare il nostro paese.

Alla fine del tour – durato un’ora e mezza – ci scambiamo le mail e promettiamo di tenerci in contatto. Lui tutto contento va a prendere il dizionario SPAGNOLO – ITALIANO ITALIANO – SPAGNOLO che sta utilizzando per imparare la nostra lingua.

Grazie Wilber e in bocca al lupo!

IMG_2093Dal museo de leyendas y tradiciones ci spostiamo alla “Casa della Cultura” di Leòn che è un centro per la promozione delle attività culturali, gestito dall’Associazione Cultural Leonesa ‘Orlando Mendoza Pastora’. Qui vengono organizzate lezioni di spagnolo, danza, musica, arti visive, a prezzi popolari. Visitiamo una mostra permanente di murales, dipinti e sculture di artisti locali e una piccola biblioteca di riviste letterarie. Mica male come posticino!

Ormai è l’una passata e decidiamo che è arrivato il momento di mettere qualcosa sotto i denti ma soprattutto di disturbare Fra.

Tuuuuu tuuuuuu

F: hola?

J: uè ciao Fra come xea? te disturbo?

F: ciao Giorgia, eh so in riunione dime veloce…

J: no ci chiedevamo or ora se il Lago di Managua è dolce o salato…

F: ma *** *** che ***** ghin so? ma soprattutto no podemo parlarghine dopo?!?

J: volevamo saperlo adesso… vabeh comunque xa che se sentimo stasera allora si parte per San Juan?

F: si me raccomando cercate di tornare a Managua per le 16 che max 16:30 – 17:00 si parte… devo solo passare a prendere la macchina nuova…

J: ah figata, se va con la macchina nova? paga da bevare!

F: va in mona Ciube se vedemo dopo dai che so in riunion el ******* *********

J: ok Fra saremo puntuali. Saluto!

Troviamo un ristorantino che scopriremo poi essere gestito da un italiano che vive a Leòn (che nome cazzuto) da parecchi anni. Unica nota di colore: Nicola ordina dell’aglio con un pizzico di carne sotto.

Dobbiamo un pochino sbrigarci se vogliamo arrivare in orario a Managua. Ci nutriamo, abbeveriamo, paghiamo il conto e ci rituffiamo sotto la candela per andare a recuperare i nostri zaini al Tortuga Booluda. Da li prendiamo un taxi scassatissimo fino alla stazione delle corriere. Qui funziona che il pulmino parte solamente quando è pieno, esistono orari “indicativi” di partenza. Sicuramente lo fanno per motivi ecologici… ehi ma quell’elefante sta cercando di attaccare un UFO, datemi subito una spada laser cribbio!

Raggiungiamo il numero legale per la partenza e pensiamo: beh adesso l’autista accenderà l’aria condizionata… Vero autista? Autista???

Niente da fare, ben presto il sedere diventa un tutt’uno con il sedile di pelle, le magliette incollate e le fronti madreperlate, il che non ci preclude di fare alcune conoscenze in pulmino; nell’ordine:

Nicola: socializzazione con ragazzo logorroico (Centroamerica diferente) che non gli lascia tregua per tutto il viaggio

Lara: viene invitata ad assaggiare biscottini homemade dalla sua compagna di panca (cede dopo iniziale ritrosia causa possibilità di contrarre bacilli provocanti diarrea & affini)

Jacopo: vivo sicuramente il momento più bello della vacanza quando una ragazza autoctona si alza per scendere ma a causa di una frenata con conseguente ripresa del pulmino che neanche una Ferrari, atterra con il suo bellissimo e sodo sedere sulla mia faccia. Nema problema (sorrisone incorporato)!

Alla fine, dopo aver evitato mille incidenti, raggiungiamo miracolosamente Managua. Arriviamo a casa di Fra verso le 17, preoccupati per il ritardo. A casa ad attenderci però c’è solo Veneto – il perro di Fra -.

SMS da Fra: “SONO ANCORA IN UFFICIO DEVO PASSARE A PRENDERE LA MACCHINA, TARDO UN PO’. FATE COME FOSTE A CASA MIA. CIAO STRONZI.

Ok, intanto noi ci dissetiamo, svuotiamo e riempiamo di nuovo lo zaino con le cose “per il mare” (dura la vita del viaggiatore infaticabile) e verso le 18 siamo profumati e pronti a partire. Nel frattempo arriva anche Nic anche lui reduce dalla giornata lavorativa e pronto a partire… insomma manca solo Fra che si presenta con la nuova jeep Nissan alle 19:30 spaccate.

Già qua? – seguono invocazioni tipiche della tradizione natalizia che non starò qui a riportare –

La trattativa per la compraventita della macchina è stata più lunga del previsto ma ehi, l’abbamo portata a casa!

Tra una cosa e l’altra riusciamo a partire verso le 20:30 nella seguente formazione: sedili anteriori: al volante Francesco, copilota e iPod: mi. Sedile posteriore: addetti all’ignoranza nell’ordine: Nicola B. Lara & Nicola F. Bagagliaio: addetto ai bagagli e fonte inesauribile di peti: Veneto.

450Dirigiamo “el coche” verso sud sulla mitica carretera Panamericana. C’è chi ride a causa di massicce dosi di ignoranza, c’è chi dorme (soprattutto Lara) e c’è chi continua a emettere peti velenosi (Veneto). Dopo circa un paio d’ore arriviamo a San Juan der Sur, sull’oceano Pacifico.

sjdsVerso le 23:30 facciamo capolino al nostro ostello gestito da un tizio leggermente sopra le righe (in tutti i sensi) di nome Luiz. Quando scopre che siamo italiani ci spara subito due frasi che non possiamo non appoggiare in toto (soprattutto Lara):

Luiz: “ITALLLIANNIIIIII MI PIACE SCOOOPPPAAA”REEEE” “MONICA BELUCCCCI CHE BELLA FIGAAA”

… bravo, bravo Luiz!

Leggermente affamati scendiamo giù in paese… ovviamente i ristoranti sono quasi tutti chiusi a quest’ora ma riusciamo a trovarne uno che ci cucina una vassoiata di carne che apprezziamo più per sfinimento che per l’effettiva qualità (soprattutto Lara). Molto meglio il dopocena che ci vede protagonisti in due-tre bar con giretti di tequila e rum nicaraguense.

Una giornata di totale relax che si conclude alle ore 3:30 (quasi after), ora in cui decidiamo di coricarci.

Siamo al mare. Hai portato la protezione 50?

Jacopo

 

La raccomandazione di (mamma) Fra”: ragazzi, state bevendo abbastanza? Mi raccomando eh, almeno 2 litri di acqua al giorno faxime na carità che non staxì mae.

La lamentela di Nic”: ci si sistema all’ostello di San Juan der Sur, letti a castello. Mi devo dormire sora? *** ******** vara che rassa de scaletta che ghe xe… me coparò.

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Leòn – El Asesino Profesional

Dia 3 – Giovedì 6 agosto 2015

Dopo la serata precedente passata a combattere il jet-lag con l’aiuto delle amiche Toña e Victoria a casa di Nic, la notte passa in un attimo. E’ giovedì, la sveglia suona le 7:00 ed è ora di svegliarci, dobbiamo partire alla volta di Leòn (che nome cazzuto) e Fra’ è stato molto chiaro: 8:30 in macchina che poi devo andare a lavoro.
Improvvisamente ci ricordiamo di essere figli del nord-est, e che siamo stati programmati a credere che nulla è più importante del rispetto del lavoro altrui, perciò scattiamo in piedi, rapida lavata di faccia e ascelle, cambio di zaino (il primo di una lunga serie in queste settimane) e siamo pronti per la colazione.
Jacopo porta sul viso i segni di una difficile nottata passata a condurre una lunga battaglia con Veneto a suon di peti, dalla quale purtroppo è uscito pesantemente sconfitto.
Ci accomodiamo a tavola, Fra’ non si vede, ma Rosita si precipita ugualmente a servirci la colazione con il suo immancabile sorriso. Forse le stiamo simpatici, o forse ha paura che Fra’ possa sbraitarle qualche ordine da un momento all’altro.
Il ribollire della moka ed il profumo di caffè che si diffonde per casa ha l’effetto di un potente richiamo per il resto degli inquilini, ed in poco tempo ci raggiungono a tavola Urda, Manu e Fra, anche se Jacopo non è poi così sicuro della presenza di questi ultimi due ;).
Sono le 08:30, e come una scolaresca di bambini svizzeri siamo puliti, ordinati e puntuali in attesa della nostra guida, pronti per partire per Leòn (che nome cazzuto). Fra’ nel frattempo passeggia a petto nudo sorseggiando caffè e parlando al telefono (ci spiegherà più tardi che stava cercando di risolvere un problema di lavoro), ci guarda e ci fa segno che saremmo partiti da lì a dieci minuti.
Passano i dieci minuti e sono le 09:30. Salutiamo tutti, carichiamo gli zaini sulla Bernarda e saliamo a bordo.

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Ci immergiamo nel caotico traffico di Managua, clacson, moto, motorini, motorette, cavalli, cavalli che trainano carretti, carretti che trainano altri carretti, bus gialli quelliamericanitipoquellicheguidaottoneisimpson, ed in men che non si dica siamo alla stazione dei “pullman”, alla Universidad de Centroamerica, la UCA, nome che pochi giorni dopo tornerà a farci compagnia.
Salutiamo Fra’, e diventiamo anche noi parte di quell’ammasso anarchico di uomini e motori urlanti che chiamano stazione.
Presto ci avremmo fatto l’abitudine, ma subito rimaniamo disorientati da quella che sembrava a tutti gli effetti una gara a chi grida più forte: chi vuole venderti cibo, chi una corsa per Cordoba (no grazie vado a Leòn), chi una corsa in taxi.
Ci fiondiamo dentro la navetta diretta a Leòn (che nome cazzuto) che ci ha indicato Fra’ prima di salutarci, alla ricerca di un luogo sicuro, ma anche lì siamo raggiunti dall’esercito di venditori che cercano di concludere i propri affari anche attraverso i finestrini del pullmino.
Qui non esistono orari di partenza, pertanto rimaniamo fermi finché la navetta non è piena di passeggeri. Per fortuna ci sono poco più di dieci posti e l’attesa dura poco. Partiamo. Leòn aspettaci!

Siamo in viaggio da quasi un’ora, quando l’autista decide di fermarsi in quella che ha tutta l’aria di essere un’area di sosta. Il personale di bordo inizia a raccogliere i soldi dai passeggeri, ed è in quel momento che Lara va vicina all’infarto quando vede uno degli esattori spuntare dal bagagliaio. Finisco di rianimarla e consegno al controllore le cordoba per il biglietto…circa 2 € a testa per un viaggio di quasi 3 ore.
Nel frattempo anche qui, mentre siamo fermi in quest’area di sosta, siamo presi d’assalto dai venditori da finestrino…sembra di essere in uno di quei film “dell’horror” dove tu e i tuoi amici siete in vacanza in una località sperduta che poi si scopre essere una città fantasma e devi cercare di sopravvivere all’attacco degli zombie…sto pensando tutto questo quando….ohmmioddio no! Lasciate stare Jacopo! Era ormai troppo tardi e gli zombie-mercanti avevano preso il nostro amico…la curiosità gastronomica lo ha spinto ad acquistare un “quesito” o qualcosa del genere…una specie di tortilla riempita con un formaggio fuso, il tutto servito in sacchettino di plastica trasparente per contenere gli inevitabili gocciolamenti e per evitare gravidanze indesiderate.
Sarà stata la consistenza, sarà stato il sapore, ad ogni modo Jacopo si arrende a metà del rancio, custodendo gelosamente per tutto il viaggio la restante metà all’interno del sacchettino, in un bagno di condensa e formaggio. Buono o no, lo spuntino ha segnato una tappa fondamentale nel viaggio di Jacopo: da quel momento in poi il suo intestino non ha più conosciuto la solidità.

Al termine del viaggio, dopo aver superato la velocità della luce in un paio di rettilinei, atterriamo alla stazione di Leòn (che nome cazzuto), dove veniamo accolti dagli ormai immancabili anarchici urlatori.
Un rapido incrocio di sguardi e capiamo subito che in quel caos la nostra priorità è una soltanto: trovare un cestino per buttare l’immondo sacchettino formaggioso. L’impresa si rivela molto ardua, e decidiamo di supportare Jacopo nella scelta di non abbandonare la sua piccola creatura lungo la strada.
Ci dirigiamo allora con fare sprezzante di chi ostenta sicurezza (non vorremo mica sembrare dei turisti, vero?) dal primo tassista che risponde ai requisiti di professionalità indicati da Fra’, e grazie alle doti di seduttrice di Lara contrattiamo in autonomia il nostro primo viaggio in Taxi.
“Portaces all’ostello La Tortuga Booludas”. Poche semplici parole per avere la conferma che lo spagnolo non è altro che il dialetto veneto con l’aggiunta di qualche esse alla fine delle parole.
Saliamo quindi sul taxi, ci siamo tutti: io, Lara e Linus con la sua inseparabile copertina di plastica e formaggio. Poche curve nei vicoli del centro città, ed il nostro tassista accosta, strappa di mano a Jacopo il sacchettino e lo getta dal finestrino del taxi dentro un cestino a lato della strada. Canestro e 3 punti per lui.
Riprendiamo la marcia e giungiamo all’ostello.

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Hostal La tortuga Booluda. Ci dicono si traduca La tartaruga pigra. Lo stile ci conquista subito. Appena varcato il cancello d’ingresso ci appare il giardino-reception: tavolo da biliardo, libri chitarre e bonghi per allietare le ore di ozio degli ospiti…per non parlare delle amache appese da un albero all’altro. Rapido giro illustrativo con la ragazza dell’ostello che ci fa vedere la camera, la cucina comune per cucinarci i pancakes a colazione, ed infine ci spiega il funzionamento del metodo di pagamento delle consumazioni extra: ogni bibita, snack, birra prelevata dal frigo comune sarà pagato scrivendo una lineetta nell’apposito foglio delle consumazioni appeso alla porta della reception. Questa dimostrazione di fiducia ci trasformerà inaspettatamente nei clienti più onesti che il Nicaragua abbia mai conosciuto.

Finito il giro di perlustrazione, una volta avuto il via libera per entrare in camera, appoggiamo i bagagli, velocissimo cambio d’abiti e ci dirigiamo nuovamente alla reception per prenotare il trekking sul vulcano Telica. Con l’aiuto dei ragazzi dell’ostello prenotiamo l’escursione, organizzata ad hoc per noi tre. Appuntamento in ostello alle 14:30, passerà a prenderci la nostra guida.
Per ingannare l’attesa usciamo a vedere il centro di Leòn (che nome cazzuto), e la cosa che ci colpisce immediatamente è il caldo. Torrido, insopportabile. Ci sembra impossibile ma Nic aveva ragione: Leòn (che nome cazzuto) è ancora più calda di Managua. Camminiamo lentissimi: quando siamo al sole per non sudare, quando siamo all’ombra per non tornare al sole. Ci infiliamo dentro ad un mercato coperto alla ricerca di qualcosa con cui pranzare, ma le uniche cose a farci appetito sono acqua e frutta. Tranne a me, che non riesco a resistere al richiamo dell’anziana signora e del suo banchetto di hot dog. Quando poi vedo più da vicino sia lei che i suoi hot dog, il fascino cala un pochettino, ma tant’è. Ormai il pranzo era servito, e non si poteva più rifiutare. Facciamo un’abbondante scorta di acqua e torniamo all’ostello ad attendere la nostra guida per il trekking vulcanico. Nell’attesa, stabiliamo dei rigidi turni per godere dell’amaca, mentre apprezziamo (soprattutto Lara) lo sfilare davanti i nostri occhi delle bellezze autoctone e turistiche che popolano l’ostello.
La nostra guida è arrivata, sono le 15:30, lo stiamo aspettando solo da un’ora, forse avrà avuto la stessa telefonata di lavoro avuta da Fra’ questa mattina. Ma chissene, siamo in ferie e stiamo per salire su di un vulcano.

Saliamo in auto, e quando realizziamo che siamo a bordo di un pick-up iniziamo a fare i capricci per sederci sul cassone dietro, all’aperto. Veniamo accontentati e smettiamo di piangere. Breve sosta per recuperare altri due compagni Trek americani e via verso il Telica.
Cose che non sapevamo quando abbiamo chiesto di salire sul cassone del pick-up: 1) i posti a sedere erano fatti di marmo 2) il viaggio sarebbe durato più di un’ora 3) nei tratti di super strada si sarebbero raggiunti i seimila all’ora 4) i tratti a velocità ridotta erano su strada sterrata, nel mezzo di un bosco con rami molto bassi.

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Dopo un’ora e mezza di viaggio tra vacche, cavalli e carretti, la nostra jeep (si, nel frattempo è diventata una jeep) raggiunge uno spiazzo e si ferma per farci scendere. Siamo ai piedi del vulcano, circondati da un fantastico mix di verdi arbusti e aride rocce.

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Nemmeno il tempo di controllare reciprocamente lo stato di salute delle nostre natiche dopo l’avventura sullo sterrato, che il nostro sherpa inizia immediatamente a correre verso la cima del vulcano dopo averci consegnato torce e viveri, mettendo subito dei chilometri tra lui e noi (contattata prima di scrivere il diario di questa giornata, la guida mi ha espressamente chiesto di rimanere anonimo, motivo per cui per comodità d’ora in avanti si chiamerà Reinhold).
Facciamo una fatica disumana a tenere il passo di Reinhold, ma dobbiamo fare in fretta a raggiungere la cima prima del calare del sole, per non perderci lo spettacolo del tramonto dal cucuzzolo del vulcano.
Arriviamo in vetta, alla velocità di Reinhold ci abbiamo messo 35-40 secondi, anche se a me sono sembrati almeno 50.

Provo ad avvicinarmi al bordo del cratere per guardare dentro al vulcano, ma la profondità mi toglie il respiro e non riesco più a muovere le gambe. Purtroppo non riusciamo a vedere la lava, secondo Reinhold ciò è dovuto al fatto che il vulcano si è “svuotato” con la recente eruzione di Maggio.
Mi siedo. Sono seduto su un gigantesco camino largo più di 70 metri che fuma incessantemente, e non immaginavo che visto da vicino quel fumo potesse somigliare così tanto alla nebbia degli inverni di casa. Una nebbia di un profumo così intenso e pungente che sembra perfino riduttivo definire zolfo.

Mentre siamo intenti a fotografarci in compagnia di un teschio di cavallo trovato in vetta, sentiamo un forte rumore provenire dal cratere. Ci avviciniamo incuriositi e vediamo un corposo getto di fumo salire dal profondo del vulcano. Reinhold ci consiglia di allontanarci in fretta dal cratere, facendoci preoccupare non poco nello spiegarci come nell’ultimo periodo la temperatura interna del Telica sia in costante aumento, sintomo di una possibile imminente eruzione, in un futuro non troppo lontano.

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Forse avendoci visto terrorizzati a sufficienza, Reinhold decide di distrarci portandoci al punto panoramico: si sono ormai fatte le 17:00 ed inizia ad imbrunire. Il tramonto da quassù è qualcosa di indescrivibile a parole, motivo per cui le parole cedono il passo ad una battaglia a colpi di instagram senza precedenti.
Riposti nella fodera i telefonetti, il silenzio assoluto intorno a noi contribuisce a rendere magico il momento…hai un’inspiegabile consapevolezza che nulla potrebbe rovinare quegli istanti, fino a quando Lara decide di farti ricredere rovesciandoti sulla camicia nuova del dolcissimo succo di mela in lattina.

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Reinhold, che probabilmente ha assistito alla scena, ha deciso che oramai è giunto il momento di fare ritorno al pick-up…ci consiglia quindi di rimetterci in cammino e di tenere a portata di mano le torce. Nemmeno il tempo di finire la frase, che siamo già avvolti dalle tenebre.
E’ incredibile la velocità con cui in questo Paese passi dal fotografare un tramonto al ritrovarti naso all’insù ad ammirare una stellata.
Riprendiamo così il cammino, questa volta in discesa, camminando in fila indiana ed illuminandoci il sentiero sotto i piedi con la luce delle torce gentilmente prestateci da Reinhold.

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Durante la discesa succede che Lara sposti il cono luminoso alla sua sinistra e si renda conto che non stava parlando con me, bensì con un gigantesco bovino dalle enormi corna che la sta fissando indispettito per essere appena stato svegliato dal sonno. Terrorizzata si gira per raccontare a Jacopo dell’accaduto, ma in realtà quello che credeva essere il nostro compagno di viaggio in realtà era un grandissimo cavallo bianco, che in quella oscurità sembrava quasi uno spettro. E’ in questo momento che Lara ha il suo secondo attacco di cuore della giornata. Per fortuna niente di grave, ma facciamo una bella fatica a riportarla alla macchina priva di sensi.
Durante il viaggio di ritorno mescoliamo le squadre: io e Lara stiamo all’interno della cabina, lottando con le nostre palpebre per rimanere svegli, mentre Jacopo rimane con i due compagni yankee a guardare le stelle dal cassone esterno del pick-up.
Del viaggio di ritorno non ricordo nulla, è evidente che sono uscito sconfitto dalla lotta contro Morfeo. Quando apro gli occhi sono in piedi davanti al cancello dell’ostello, zaino in spalla e con una camicia che puzza di bevanda al sapore di mela.

Chiediamo al ragazzo dell’ostello se per caso conosca qualche ristorante raggiungibile a piedi dove poter cenare con dei piatti della cucina Nica. Ci consiglia di andare al ristorante “Mi Casita”, a poco più di 100 metri da noi.
Mentre ci parla, però, la sua faccia disgustata ci fa sentire a disagio: non riusciamo a capire se sia dovuto alla cucina che ci ha appena consigliato o al nostro aspetto. A scanso di equivoci decidiamo di passare per la doccia prima di uscire.
Arriviamo al “Mi Casita” e veniamo subito accolti dalla cameriera che ci indica il tavolo cui possiamo accomodarci. Il locale è gremito di famiglie, coppie, bambini…tranne intorno a noi. Nessuno. Siamo da soli nella sala. Nonostante il nostro esilio, il karaoke sulle basi midi delle hit di Marc Anthony ci arriva ad un volume assordante, superato solo dalle urla della folla in delirio.


Tuttavia, anche se riusciamo a fatica a parlare tra di noi, la cucina è veloce, i piatti sono buoni e le dosi abbondanti. Locale approvato, ed è la definitiva conferma che il ragazzo dell’ostello poco fa era schifato proprio per il nostro aspetto.
Paghiamo il conto e ci avviamo a fare ritorno alla Tortuga Booluda, quando all’improvviso un inatteso regalo (per Lara): le casse dell’impianto ci salutano sparando a tutto volume “la mia storia fra le dita” di Grignani in spagnolo… e l’italiana cantavvaaa cantavaaaaa.


Rientrati in ostello dopo la breve giornata, ci sembra brutto correre subito a letto, perciò preleviamo tre bottiglie di birra dal frigo, paghiamo con il consueto metodo delle lineette, e ci abbandoniamo sollazzanti sulle sdraio e sulle amache.
Accanto a noi, dalla zona bagno, sentiamo la doccia in funzione. Dall’interno proviene una voce femminile…poi una maschile…poi risatine imbarazzate…ci guardiamo divertiti, tutti con lo stesso sospetto circa quello che sta succedendo dentro quella doccia: è evidente che il ragazzo invece di cantare sotto la doccia si stava esercitando in qualche divertente imitazione.

A questo punto le birrette sono decisamente il colpo di grazia che stavamo aspettando, il sonno è ormai incontrollabile e non ci rimane che andare a nanna. Entriamo in camera e l’escursione termica percepita è di circa venti gradi, fa caldissimo e i due ventilatori in camera puntano tutto sull’effetto suggestione. La stanza profuma di succo alla mela, maledetta camicia. Nuova.

Buona notte amici, buona notte Leòn (che nome cazzuto) a domani!

 

Nicola

P.S. Mi stavo quasi dimenticando le immancabili rubriche quotidiane, presenti nonostante la distanza di Nic e Fra

La raccomandazione di (mamma) Fra”: Di giorno potete camminare dove volete, di sera solo al di qua della sbarra del residence. Di notte, solo taxi

La lamentela di Nic”: Andate a Leòn? Bellissima. Pecà che xe la città più calda del mondo.

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